A partire dalla metà degli anni Sessanta a venire alla ribalta è un mondo prettamente ed esclusivamente giovanile, quello studentesco. Mai prima di allora gli studenti erano riusciti a conquistarsi l’etichetta di soggetto, se non addirittura di classe sociale, ma soprattutto, mai si sarebbe immaginato che, nel giro di pochi anni, essi avrebbero avuto la capacità di reggere le sorti di alcuni Paesi. Il fenomeno della contestazione studentesca comincia a farsi sentire sin dall’inizio degli anni Sessanta: il sistema scolastico era forse uno dei più immobili e statici, legato ad un acuto bigottismo, un’ipocrisia, un perbenismo, una tradizione difficilissimi da intaccare. Nella scuola lavorava una categoria di insegnanti ancorata staticamente a vecchi metodi didattici, per nulla disposta e preparata ad accogliere alunni delle più svariate provenienze sociali e culturali, una categoria che aveva un’immagine di sé e del proprio ruolo spesso conservatrice e autoritaria; le scuole erano rette da presidi molto severi e poco disposti ad adattarsi a situazioni nuove e difficili.
Dietro il professore che esamina c’è sempre lo Stato, il criterio borghese che valuta l’attendibilità della forza lavoro in via di qualificazione a essere domani […] fungibile e contenibile entro i rapporti di produzione dati.
La scuola rappresentava quindi, almeno in parte, il mondo circostante: forte selezione ogni anno sin dalle elementari, grossa discriminazione di ceto e di origine, enorme distanza tra alunni e professori, impossibilità di comunicazione tra le due diverse generazioni e inadeguatezza dei programmi rispetto alle nuove esigenze lavorative. In particolar modo la scuola d’indirizzo professionale tendeva a riprodurre le divisioni lavoratore-padrone che vigevano in fabbrica, tendendo a rendere gli studenti semplici operai da inserire nel ciclo produttivo.
Il sistema d’istruzione italiano sembrava educare all’ubbidienza, ad accettare la propria condizione sociale, spesso a non pensare per proprio conto; insisteva su un sapere puramente nozionistico e formalistico, portando sempre più i giovani ad odiare la cultura e i professori, le aule tetre e i corridoi dall’aspetto vagamente militaresco.
Dietro il professore che esamina c’è sempre lo Stato, il criterio borghese che valuta l’attendibilità della forza lavoro in via di qualificazione a essere domani […] fungibile e contenibile entro i rapporti di produzione dati.
La scuola rappresentava quindi, almeno in parte, il mondo circostante: forte selezione ogni anno sin dalle elementari, grossa discriminazione di ceto e di origine, enorme distanza tra alunni e professori, impossibilità di comunicazione tra le due diverse generazioni e inadeguatezza dei programmi rispetto alle nuove esigenze lavorative. In particolar modo la scuola d’indirizzo professionale tendeva a riprodurre le divisioni lavoratore-padrone che vigevano in fabbrica, tendendo a rendere gli studenti semplici operai da inserire nel ciclo produttivo.
Il sistema d’istruzione italiano sembrava educare all’ubbidienza, ad accettare la propria condizione sociale, spesso a non pensare per proprio conto; insisteva su un sapere puramente nozionistico e formalistico, portando sempre più i giovani ad odiare la cultura e i professori, le aule tetre e i corridoi dall’aspetto vagamente militaresco.
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