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La rivolta con la macchina da presa
Il vento della contestazione investì “naturalmente” il cinema, perché il Sessantotto ebbe per protagonista una giovane generazione che sentiva il cinema come proprio e comune linguaggio. In Italia, come tutto l’Occidente, esordirono nel corso degli anni Sessanta molti giovani registi (come Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Roberto Faenza), che avrebbero contrassegnato la cinematografia nei decenni successivi e che, all’epoca, con prove autoriali spesso audaci e non sempre riuscite, realizzarono pellicole che si allontanavano dalla tradizione e ispirate da una forte tensione ideologica. Era un’attività seguita da un pubblico attento e appassionato, perché i giovani che occupavano le università e scendevano in piazza per manifestare contro il potere e la scuola classista erano in genere anche avidi consumatori di cinema: una gioventù cinefila che trovava nel cinema non solamente un passatempo suggestivo, ma «un orizzonte culturale essenziale, rivendicabile come proprio», come ha scritto Peppino Ortoleva. Non pochi di essi erano cresciuti come “spettatori” in strutture culturali associative, cattoliche o laiche, legate al mezzo filmico; palestre di discussione e confronto (i cineforum) che producevano, traendola dal cinema, anche riflessione politica.Per molti giovani dunque il cinema era, nel Sessantotto, un medium su cui esercitare la critica, accedere a nuovi mondi, partecipare alla diffusione delle idee. Ed era un medium transnazionale, di richiamo ancor più universale rispetto a quello generazionale per eccellenza, la musica rock. I film viaggiarono nell’occidente anche più velocemente delle idee del Sessantotto. E non è paradossale affermare che contribuirono, a confermarle e a divulgarle, a creare miti e rafforzare stereotipi.
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